Una fiaba al giorno toglie la noia di torno

Coquena

Ecco a voi una bellissima fiaba peruviana!

CoquenaChango conduceva al pascolo le capre. In verità erano poche, solamente cinque, ma lui le chiamava “il mio gregge”. Dedicava loro tutto il suo tempo, come se fossero chissà quante, andando in cerca di pascoli erbosi e d’acqua limpida. Gli altri pastori della zona, vedendo di quanto amore circondava le sue caprette, si burlavano di lui, così per divertirsi:
– Attento al gregge, Chango!
– Non ti sbagliare a contarle!
– Sei certo che ci sono tutte? – Chango rispondeva sempre sorridendo:
-Cinque sono più di una e una è più di nessuna…
I pastori che possedevano greggi numerose un giorno gli dissero:
– Perché non vai dall’altra parte della grande montagna? C’è un fiume limpido e tanta erba tenera, tenerissima.
– E in quantità enorme. Cosi le tue caprette potranno finalmente saziarsi tutte quante…
– E voi perché non ci andate? – rispose Chango.
– Veramente è un po’ lontano…
– E il viaggio è pericoloso-soggiunse un altro.
– Io ci vado – disse Chango felice.
– Per cinque capre? Sei matto!
– Sì, sì, ci vado. Qui il pascolo è magro e le poverine diventano sempre più deboli.
E se ne andò canticchiando con le sue caprette, alla ricerca di pascoli teneri. Sempre più ripidi si facevano i fianchi della montagna, a misura che saliva e le rocce, sempre più spoglie e dure. Dopo aver camminato tanto per sentieri desolati e strettoie pericolose, giunse nella valle. Rimase sbalordito: un pascolo così bello non l’aveva visto mai. C’era mai stato nessuno?
– Eppure è così grande! — esclamò — e verde! Qui potrebbero pascolare moltissime capre!… Devo dire agli altri di venire.
Le capre giocavano nell’erba dando salti come fossero ammattite e mangiavano a sazietà.
Chango, seduto per terra, le guardava soddisfatto:
– Come son belle!… Quando la Moretta avrà un capretto, saranno sei, e sei capre sono più di cinque, e poi anche la Pezzata ne avrà uno e allora saranno sette, e sette capre sono più di sei… e poi… Chango accarezzava questi pensieri, quando si accorse che stava facendo notte.
– Bene, golosone! è già tempo di tornare a casa. Andiamo!
Molte nubi coprirono il cielo e si fece subito buio. Dapprima caddero alcuni goccioloni poi si scatenò la tormenta. Il vento soffiava così forte che bisognava afferrarsi alle rocce per non essere portati via. Veniva giù la pioggia a catinelle, a torrenti. Il tuono assordante spaventava le capre che si sbandavano per ogni dove. Chango le chiamava gridando, ma erano così spaventate.., forse non udivano nemmeno la sua voce.
A fatica, una dopo l’altra, riuscì finalmente a raggrupparle. Le condusse in un rifugio sicuro, tra le rocce, in attesa che dileguasse la tormenta. Ma quando le contò si accorse che ne mancava una.
– La Morettal – gridò. E uscì di nuovo all’aperto, sotto la pioggia. Forse era caduta in un burrone.
– Moretta! Morettina!
Dall’alto del sentiero vide là in basso, nella vallata verde, un gregge innumerevole di lama. Mai ne aveva visti tanti insieme. Continuavano il loro cammino ordinati, tranquilli, come se qualcuno li guidasse, e salivano, salivano. Sembrava non ci fosse nessun pastore…
– Deve essere Coquena — penso — il dio nano che li conduce. Solo lui ha il potere di rendersi invisibile.
– Coquena! Coquenal Per favore aiutami! — E si mise a correre verso il gregge.
– Coquenal Coquena! – I lama erano spariti dietro il sentiero e si vedeva solo la valle, già quasi al buio, che s’illuminava a tratti per il bagliore improvviso dei fulmini. Notò qualcosa di strano disteso sulle pietre.
– Morettina! — esclamò con gioia. — La mia Morettina!
Ma quando si chinò si accorse che non era la sua capra, era un lama piccolino e, a quanto sembrava, ferito.
– Dev’essere del gregge – pensò e l’accarezzava.
– Poverino! Non aver paura. Mi prenderò cura di te. Ma tu stai tremando, e il mio poncho è così fradicio. Ti condurrò dalle capre. Quando sarai guarito ritornerai al tuo gregge.
Gli parlava con tenerezza ma, come si chinò per alzarlo, invece del piccolo lama si trovò davanti lo stesso Coquena. Chango non riuscì a spiccicare una sola parola. Allora parlò Coquena:
– Sei buono, piccolo Chango, molto buono. Dimmi ciò che desideri. Vuoi oro? Vuoi argento?
un gregge immenso che copra tutta la vallata?
– Ti ringrazio, Coquena. Non voglio niente di tutto ciò. Però, ti scongiuro, aiutami a trovare la mia Morettina.
Al dio nano luccicavano gli occhi di contentezza e, indicando con la sua mano di lana verso nord, disse:
– Cammina fin dove termina il sentiero, gira a sinistra e troverai una grotta. Tutto ciò che vedrai vicino alla tua capra sarà tuo. Questa è la volontà di Coquena.
E sparì. Nella grotta Chango trovò la Morettina e vicino e lei una borsa enorme piena di monete d’oro e d’argento.
Quando riprese il cammino verso casa con le sue cinque capre cominciava appena ad albeggiare. La pioggia era cessata. Ogni tanto lui si voltava, e lassù, in lontananza, gli sembrava di vedere ancora le schiene vellutate dei lama di Coquena che camminavano in fila contro il cielo.

La Sirenetta

Come prima fiaba d’autore ho scelto una fiaba molto bella che pochi conoscono nella versione originale di Andersen. Buona lettura.

sirenettaNelle profondità degli oceani vivevano esseri metà umani e metà pesci: le sirene.
Dotate di una voce melodiosa, a volte risalivano alla superficie del mare per cantare, addolcendo così l’agonia dei marinai naufragati.
Abitavano in palazzi meravigliosamente decorati di conchiglie multicolori e di madreperle che i raggi del sole, smorzati, facevano risplendere. Intorno si estendevano vasti giardini di alghe brune e verdi. Le prime ondulavano come sciarpe di seta gonfiate da una brezza leggera, le seconde, finemente cesellate, davano riparo ai pesci dalle forme straordinarie e dai colori forti, che volteggiavano graziosamente in compagnia di meduse trasparenti.
Nel più grande e più bello di questi palazzi marini regnava il re del mare.
Già vecchio, era un padre soddisfatto di sei bellissime principesse. Egli aveva affidato la loro educazione alla regina madre, che aveva una grande coscienza del suo rango; infatti, inculcò con rigore alle principesse le belle maniere, l’arte di ricevere e tutte quelle cose che facevano di loro delle ragazze sapienti e perfette.
Erano tutte bellissime, ma la più giovane era di uno splendore particolare che la distingueva dalle sorelle. I suoi lunghi capelli biondi e soffici, la sua bocca rossa, il suo colore delicato e i suoi occhi chiarissimi le conferivano un fascino incomparabile.

Tutto in lei era perfetto… Ahimè! da qualche tempo però la tristezza offuscava spesso il suo volto delicato, dandole un’aria depressa e assente.
Aveva sempre più desiderio di ritirarsi nel giardino segreto, giardino che aveva ogni principessa, perché le piaceva sognare ad occhi aperti, lontana dagli occhi delle sorelle; ma ora ci passava lunghe ore immersa nei suoi pensieri. Qual’era la ragione di questo cambiamento d’umore, lei che prima era così amabile?
Qualche giorno prima aveva trovato un busto in alabastro di un giovane uomo, probabilmente caduto in mare durante il naufragio di una nave.

Era sempre stata attratta dai racconti della nonna sulla vita terrestre; come tutte le sirene il giorno del quindicesimo compleanno, sua nonna era emersa dalle profondità dell’oceano e aveva scoperto il mondo sconosciuto degli uomini.
In seguito, aveva fatto frequenti incursioni sulle spiagge di diversi litorali e aveva conservato un ricordo indimenticabile delle sue esperienze. La passione che metteva nel raccontare le sue storie fu trasmessa alla giovane sirenetta. Avida di particolari, l’assillava di domande; voleva conoscere tutto della vita di chi, sulla terra, con due gambe, si muoveva facilmente così come lei danzava nell’acqua…
Purtroppo, ancora alcuni anni le mancavano prima che lei compisse i suoi quindici anni…
Un giorno la maggiore delle sue sorelle compì i tanto attesi quindici anni. Dopo aver avuto innumerevoli raccomandazioni di prudenza dalla nonna preoccupata, partì verso la superficie, guardata con invidia dalla sorella minore. Al ritorno, raccontò con entusiasmo la sua esperienza e, certamente, la sua più avida ascoltatrice fu la sirenetta più giovane.

L’anno seguente, fu il turno della seconda figlia del re: partita nella direzione opposta conobbe altri paesaggi, altri popoli, che descrisse alla sorella addirittura abbagliata. La terza principessa fra quelle che ricevettero il permesso, si recò in una baia, risalì poi un fiume circondato da castelli, colline e foreste. La quarta preferì restare al largo a contemplare le navi che facevano rotta verso il continente. Il compleanno della quinta fu in inverno ed ebbe il privilegio di ammirare la neve e il ghiaccio, che nessuna sirena aveva mai visto fino ad allora. Infine, il giorno tanto atteso e nello stesso tempo tanto temuto, arrivò. La piccola sirena compì quindici anni. Appena ebbe il permesso di partire, nuotò vigorosamente e andò verso il cielo che intravedeva sopra la sua testa. Tra gli spruzzi di mille goccioline, uscì sulla superficie del mare e contemplò, soggiogata, il sole che calava fiammeggiante all’orizzonte. I minuti passarono meravigliosi.
Lentamente, il giorno si oscurò e arrivò la notte, ma la piccola sirena riuscì a scorgere, lasciandosi dondolare dolcemente, una magnifica caravella con molte vele.
C’era una festa a bordo e l’alberatura era tutta addobbata con centinaia di lampade che illuminavano tutta la nave. Sul ponte riccamente parato c’era l’eroe della serata, un principe giovane e bello…
Affascinata dallo spettacolo fiabesco, la sirenetta fissava estasiata il giovane che si distingueva dagli altri per la sua prestanza fisica e la sua eleganza.

Improvvisamente si alzò il vento, le onde divennero più violente e si infransero contro la nave. I lampi saettavano nel cielo oscurato dalle nuvole e la tempesta scoppiò spaventosamente.
I marinai, sorpresi dalla rapidità e dalla forza dello scatenarsi degli elementi, non ebbero il tempo di abbassare le vele: gonfiate al massimo, trasportarono la nave come una pagliuzza. Spinta dal vento, sballottata dalle onde giganti, la nave non resistette molto tempo. Lo scafo si ruppe, le strutture sradicate caddero nell’ acqua e in mezzo alle grida dei naufraghi, la nave tu inghiottita dalle onde mugghianti.
Fu così che un’incredibile speranza attraversò la mente della sirenetta che assisteva impotente a quel dramma: il principe la stava raggiungendo nel regno del mare!
Poi si ricordò che gli uomini annegavano se non potevano respirare l’aria, per loro indispensabile. Con il rischio di essere ferita dai rottami della nave, si precipitò in soccorso del principe un attimo prima che fosse inghiottito dalle onde.

Gli sorresse la testa fuori dall’acqua e poi, lottando con tutte le sue forze, cercò di arrivare a riva.
Dopo molti sforzi, esausta, giunse sulla spiaggia con il suo carico esanime. Al mattino la tempesta si era calmata e nel cielo senza nuvole, il sole cominciò a salire verso lo zenit.
Il mare era calmo e tutti i resti della nave erano scomparsi. Si sarebbe potuto credere che non fosse successo niente. Soltanto la presenza del principe ricordava i tragici avvenimenti della notte.
La sirenetta pensò che la vita era più tranquilla nel regno profondo del mare; fugacemente, rimpianse la sua vita comoda, ma la vista del giovane la riportò alla realtà.
Con gli occhi chiusi sembrava dormisse e poté osservarlo per lungo tempo: assomigliava stranamente al busto di alabastro che ornava il suo giardino… furtivamente, gli diede un bacio sulla fronte.
E se fosse morto? Disperata, non sapeva che fare per salvare colui che amava già con tutto il cuore. Si sentì inutile, la sua coda di pesce le impediva tutti i movimenti sulla terra ferma.

Coraggiosamente, incominciò a tirare il corpo inerte verso un luogo ben in evidenza, alla vista di eventuali passanti.
Poi, andò a sedersi dietro una roccia, non potendo fare altro per il principe. Quasi subito, una ragazza che passeggiava sulla spiaggia, approfittando del dolce sole mattutino, vide il principe. Chiamò aiuto e il giovane ebbe finalmente soccorsi.
Riscaldato, confortato, riprese i sensi e il primo volto che vide fu quello della giovane ragazza.
Ben rassicurata sulla sorte di chi aveva toccato il suo cuore per sempre, la piccola sirena si immerse nel mare e ritornò nel suo regno. Non raccontò nulla del suo soggiorno in superficie e il suo silenzio preoccupò il re,
la nonna e le sue sorelle. Da quel giorno passò le giornate nel suo piccolo giardino contemplando la statua, sosia del principe. Molte volte andò sulla spiaggia dove aveva lasciato il principe, sperando di rivederlo ma invano… le stagioni passarono.
La malinconia della piccola principessa aumentava ogni giorno di più e il suo sconforto si intensificava. Sua nonna ebbe pena di lei e, dopo molte esitazioni, si decise a rivelare alla ragazza l’esistenza e i grandi poteri della strega che abitava sul fondo dei mari:
– Se sei felice solo quando sei sulla terra, vai a trovarla, lei ti aiuterà ma…
Senza aspettare un attimo di più, la piccola sirena riunì tutte le sue forze e nuotò verso l’antro della maga.
Coraggiosamente, riuscì a resistere all’attacco delle murene che volevano morderla e ignorò le ferite causate dai coralli che laceravano il suo corpo. Superando la paura, continuò, malgrado gli ostacoli che le sbarravano il cammino e finalmente giunse davanti all’orribile donna che, avvisata del suo arrivo, l’aspettava.

Una puzza pestilenziale usciva da un pentolone il cui contenuto stava bollendo.
– So quello che desideri, – sogghignò la donna spaventosa, – sei molto audace! Voglio esaudirti, ma come contropartita, dovrai fare grandi sacrifici: in cambio delle gambe, voglio la tua voce, resterai per sempre muta… non ridiventerai mai più una sirena e se non saprai guadagnarti l’amore dell’uomo che ti ha ammaliata, se egli amerà un’altra donna, morrai… Poi aggiunse con un’ aria terribile: ad ogni passo, avrai dolori, i tuoi piedi sanguineranno ma tu dovrai sorridere, nascondere il tuo tormento… Sei ancora decisa?-
– La mia decisione è irremovibile. Voglio realizzarla a qualunque costo!-
Nauseata, inghiottì la bevanda dall’odore fetido che la strega le diede.
Con atroci sofferenze, la coda di pesce si trasformò in due gambe affusolate.
La piccola sirena non riuscì a trattenere un grido di’ dolore. Ad ogni passo gli occhi le si riempivano di lacrime; faticosamente si diresse verso la spiaggia. Le sue nuove gambe erano più un intralcio che un aiuto e, esausta, svenne sulla sabbia.
Quando si svegliò, il suo sguardo incrocio… quello del principe!
Anche il principe veniva regolarmente sulla spiaggia: era alla ricerca di una ragazza che aveva conquistato il suo cuore, con uno sguardo che aveva incrociato il suo al risveglio dopo il naufragio… E così scoprì la sirenetta.
Soggiogato dal suo fascino e dalla sua bellezza, la presentò ai suoi genitori, a corte e diventò la regina dei balli e dei ricevimenti dati in suo onore.
La sirenetta soffriva atrocemente, ma sorrideva radiosa. Appena restava sola, furtivamente bagnava i piedi sanguinanti nel mare fresco e riposante.
Una grande tristezza la tormentava notte e giorno: il principe l’amava, ma come una sorella, un’amica… essendo muta, si confidava molto con lei, sicuro che avrebbe mantenuto il segreto.
Il principe pensava che le lacrime che brillavano negli occhi della ragazza, fossero lacrime di compassione e le era riconoscente.

Se avesse potuto immaginare… Il principe cominciò a disperare di poter ritrovare la ragazza da cui lui credeva fosse stato salvato, quando ricevette un invito dal re di un paese vicino.
Fu con grande sorpresa e gioia che riconobbe nella figlia del re la sua salvatrice!
Anche la giovane principessa si era innamorata dello sconosciuto della spiaggia e il loro ritrovarsi fu meraviglioso.
Fu subito stabilito il matrimonio, che si celebrò dopo qualche giorno con grande sfarzo.
Il ballo degli sposi si svolse su una nave riccamente decorata e illuminata.
La piccola sirena si sforzò molto per essere gaia e gentile. Le sue gambe la sostenevano a malapena, ma lei danzò tutta la notte, la sua ultima notte… il principe aveva sposato un’altra e la piccola sirena doveva ritornare nel mare dove sarebbe affogata, essendo ormai una ragazza terrena.

Ciò a lei non importava; come poteva vivere senza amore?
Sulla spiaggia, prima di entrare tra i flutti che sarebbero diventati la sua bara, intravide le sue sorelle:
– Vieni, – le gridarono, – abbiamo venduto le nostre lunghe chiome alla strega in cambio della tua vita. Ma ad un’altra condizione: prima dello spuntare del sole, il sangue del principe dovrà bagnare le tue gambe che si ritrasformeranno in una coda di pesce… sbrigati, stai morendo… – arrivavano queste parole dal mare…
Spaventata… uccidere colui che amava ancora!
I brividi la percorsero… la morte cominciava la sua opera.
Poi il suo corpo divenne leggero, aereo, e la sirenetta si ritrovò nel regno dell’aria dove le figlie del vento, per compassione l’avevano portata.
Ormai, la piccola sirena infelice vivrà nel cielo eternamente perché lassù la morte non esiste.
Dall’immensità dei cieli, veglierà e proteggerà la giovane coppia principesca, testimone della felicità che non aveva potuto avere.

I dodici fratelli

Come prima fiaba italiana, ho scelto una fiaba della mia regione: il Piemonte.

stregaC’era una volta un uomo che aveva dodici figli; ormai erano adulti e lavoravano per conto loro, quando il padre ebbe ancora una bambina. I fratelli ne provarono un tale dispetto che vollero lasciare il paese, senza neppure far sapere dove andavano a stare. La bimba crebbe bella e buona, ma aveva una spina nel cuore, quando pensava ai suoi fratelli. Un giorno, aveva già quindici anni, era andata a lavarsi alla fontana e, per non bagnarla, aveva posato sul bordo la collanina che portava al collo. Un corvo scese, l’afferrò con il becco e volò via: e la ragazza dietro.

Corri e corri, arrivò nel bosco dove i suoi fratelli facevano i taglialegna e, seguendo il corvo, giunse alla capanna in cui essi abitavano. La fanciulla entrò e, non trovando, nessuno, si nascose sotto il letto; a mezzogiorno i dodici boscaioli tornarono a casa, pranzarono e ripartirono, senza accorgersi che c’era la ragazza. Ma dai discorsi che avevano fatto, lei aveva capito chi erano; così si diede da fare a riordinare e preparò le tagliatelle per la cena, nascondendosi di nuovo, appena sentì le voci dei fratelli che rientravano, a sera. Accorgendosi di quanto era accaduto, i taglialegna pensarono di avere a che fare con qualche magia, ed il più giovane l’indomani, per vederci più chiaro, quando fu l’ora di andare al lavoro, fece finta di unirsi ai fratelli, ma si nascose a sua volta e, dopo un poco, vide uscire di sotto il letto la ragazza, che subito si mise a lavorare. La riconobbe e si rallegrò nel vederla, ed anche gli altri le fecero festa, perché erano contenti di avere una donna che mettesse un pò d’ordine tra le loro cose. Così le dissero: “Se vuoi, puoi restare con noi. Bada però di tenerti lontana da quella casetta che c’è in fondo al bosco, perché ci vive una strega”. La fanciulla promise e per qualche tempo vissero assieme, felici e contenti. Ma, una sera, la ragazza si. accorse di essere in ritardo per la cena e, per guadagnare tempo, andò per fuoco a casa della strega. Le venne ad aprire una vecchia, che l’accontentò di buon grado e, accomiatandola, disse: “Favore chiama favore. Oggi io ho dato a te il fuoco di cui avevi bisogno; domani verrò io da te a chiederti di darmi un attimino il mignolo da succhiare”.
Poiché la ragazza la guardava senza capire, per spiegarle la cosa le infilò il dito nel buco della serratura e le succhiò tanto sangue da farla quasi svenire. “Vedi, carina, come devi fare? Potrai contentarmi, senza aprire neppure la porta.” La poveretta tornò a casa mezza morta dallo spavento ed i fratelli si accorsero dal suo pallore che era successo qualcosa. A furia di insistere riuscirono a farsi dire ogni cosa e, la mattina dopo, il fratello maggiore, anziché andare nel bosco a tagliar legna, rimase assieme alla sorella e le disse: “Non avere paura: quando viene la vecchia, fà finta di non sentire, e al resto penso io”.
La strega, dopo avere bussato e ribussato alla porta della capanna senza che ne venisse alcun segno di vita, infilò la testa in una finestrella che avevano lasciato socchiusa, per vedere se la ragazza era dentro. Il fratello, che stava lì pronto, gliela staccò con una sega, poi buttò corpo e capo in un burrone. “Adesso possiamo stare tranquilli”, dissero i fratelli. Ma ci voleva altro per togliere di mezzo la strega. Si riappiccicò la testa e pensò subito a come vendicarsi. Un giorno la ragazza, andando per acqua alla fontana, vi trovò una venditrice di scodelle che, poiché lei non aveva denaro, gliene fece accettare una in dono con mille moine. A sera i fratelli rincasarono stanchi ed assetati e, uno dopo l’altro, bevvero nella scodella nuova. L’ultimo già l’aveva portata alle labbra, quando gli altri incominciarono a trasformarsi in buoi sotto i suoi occhi. Spaventato, lasciò cadere la ciotola stregata, ma ormai l’incantesimo aveva fatto presa anche su lui, e la sorella raccapricciando lo vide mutarsi in agnellino. Da quel giorno la ragazza si fece pastora e passava i suoi giorni accudendo alle dodici bestie, senza mai vedere nessuno. Poi, una sera, capitò alla capanna un principe, che s’era smarrito nel bosco, mentre andava a caccia, e, vedendo quella ragazza tanto bella, subito se ne innamorò e le propose di farla sua sposa. La pastorella scosse tristemente il capo: “Devo badare ai miei fratelli: non posso lasciarli”, dichiarò, dopo avere raccontato la sua storia.
Il principe, commosso, promise che avrebbe pensato anche a loro e, fatta costruire una stalla con belle mangiatoie per le bestie, sposò la fanciulla, che diventò così principessa. Ma la strega, gelosa, studiò un piano per sostituirsi a lei e vivere alla reggia; travestita da mendicante, penetrò nel giardino dove la principessa, seduta sotto una pergola, si teneva accanto il fratello mutato in agnello. Le chiese un grappolo d’uva e, mentre la giovane, che aveva un cuore d’oro, andava a raccoglierlo, la fece cadere dentro una cisterna a cui passava accanto, e ve la rinchiuse. L’infelice piangeva ed invocava aiuto, ma nessuno sentiva le sue grida, tranne l’agnello, che belando lamentosamente girava attorno al pozzo.
Intanto la strega, che aveva assunto l’aspetto della principessa, s’era fatta accompagnare a letto dalle cameriere. Il principe, che ve la trovò, arrivando a palazzo, domandò stupito: “Perché sei coricata?” “Sto molto male; ma credo che starei meglio, se potessi mangiare un pò di carne di quell’agnello che grida tanto.” E lui: “Allora sei bugiarda: mi dicevi che quello era tuo fratello, e non è vero”. La strega si morsicò la lingua per aver parlato tanto sbadatamente, e non sapeva come rimediare. Vedendo il suo imbarazzo, il principe incominciò a sospettare qualche inganno; corse nel giardino, guidato dal belato dell’agnello, e con stupore udì uscire dalla cisterna la voce della moglie. “Non eri dunque tu quella che ho visto a letto?” “Come potevo essere io, se da parecchio sono qui che chiamo aiuto, senza riuscire a farmi sentire da nessuno?”. Il principe la tirò su dalla cisterna, poi ordinò che la megera che voleva prendere il suo posto fosse arrestata e condotta al rogo. Man mano che il fuoco bruciava la strega, ora una mano, ora una gamba, i buoi e l’agnellino ridiventavano uomini, ed erano così gagliardi che sembrava fosse giunta al palazzo una schiera di giganti. E tutti ebbero titoli, ricchezze, onor, potere; solo io che ve la conto nulla ho potuto avere.

La storia delle spiagge Wangniang

Questa fiaba arriva direttamente dalla Cina per raccontarci come si sono formate le 24 spiagge Wangniang

WangnianMolti anni fa, la pianura occidentale del Sichuan conobbe una siccità così grave che gli alberi morivano, i giovani virgulti ingiallivano, le risaie si spaccavano, i laghi mostravano il loro fondo e i raggi di un sole rosso fuoco brillavano ogni giorno sulla terra.
In un piccolo villaggio, al bordo di una rapida, abitava una famiglia. La madre, che si chiamava Madre Nie, aveva più di quarant’anni e suo figlio Nie Lang ne aveva quattordici. Essi affittavano un campo, ma i pochi dou di cereali che restavano non erano sufficienti, dopo aver pagato l’affitto restava poco: Nie Lang doveva andare a raccogliere la legna per il fuoco e delle erbe per venderle; molto sincero, laborioso e saggio, era sempre pronto ad aiutare i vicini. Se la intendeva bene con i bambini del villaggio e il suo migliore amico si chiamava Changsheng.
Un giorno, al primo canto del gallo, egli andò come sempre, con la gerla sulla schiena, a tagliare delle erbe col falcetto. Salendo verso la Cima del Drago Rosso, pensava: « Il mio amico Changsheng mi ha detto ieri che Zhou il Riccone chiede delle erbe per nutrire il suo cavallo, bisogna che ne tagli di più per vendergliele». Preso da questi pensieri, senza accorgersene, Nie Lang aveva oltrepassato la Cima del Drago Rosso.

Nel Fossato del Drago alla base della montagna, in primavera si era avuta abbondanza di pesci e gamberetti, e di erbe sulle sue rive. Ma il luogo adesso non era altro che pietrisco. Nie Lang emise un sospiro, e pensava di andare altrove, quando vide improvvisamente una figura bianca dietro il tempio tutelare. Molto stupito, disse: « Oh! Una lepre bianca!»
All’idea che la lepre mangia l’erba tenera, egli la seguì non si sa per quanti li. Arrivata al fondo della valle, la lepre scomparve. Ma Nie Lang scoprì là un ciuffo di verzura, e tutto contento, ne tagliò un cesto pieno.
Cosa estremamente bizzarra, l’indomani le erbe erano ricresciute. Egli andò dunque a tagliarle due giorni di seguito. Poi pensò: «Sarebbe meglio che le strappassi e le piantassi dietro casa mia, invece di correre ogni volta come un coniglio per una dozzina di li». Si affrettò a scavare la terra e strappò le erbe. Ora, stava per rialzarsi quando vide una pozza d’acqua, sulla cui superficie brillava una perla. Nie Lang la prese, tutto felice, la mise prudentemente in grembo e tornò a casa, con la sua gerla di erbe sulla schiena.
Al suo arrivo a casa, il sole stava già tramontando dietro la montagna. Mamma Nie stava preparando la zuppa di mais. Alla vista del suo ragazzo, si lamentò amaramente:
– Perché rientri così tardi?
Nie Lang le raccontò la sua avventura e tirò fuori la perla. Improvvisamente, tutta la casa fu illuminata da un bagliore così accecante che non si poteva tenere gli occhi aperti. La madre si affrettò a dirgli di nasconderla nel vaso del riso. Dopo cena, Nie Lang piantò le erbe dietro casa, vicino a un boschetto di bambù.
Il giorno dopo, si alzò prestissimo e corse a dare un’occhiata alle sue piantagioni. Ahimè, le erbe erano tutte secche. Rientrò a casa per vedere se la perla era ancora là. Appena aperto il coperchio del vaso, gridò meravigliato:
– Madre, presto, venite a vedere!

Il vaso era pieno di riso, e sopra c’era ancora la perla. Capirono che era una perla magica, poiché, da allora, se la si posava nel vaso del riso, il riso aumentava, e se la si metteva su dell’argento, l’argento si moltiplicava. Alla famiglia non mancavano ormai né vestiti né cibo. Quando i vicini non avevano di che mangiare, Mamma Nie diceva a suo figlio di portar loro del riso. Anche lui povero, Nie Lang voleva ben aiutare i vicini in difficoltà. La notizia si sparse in fretta. Quando la seppe, Zhou il Riccone, un signorotto dispotico del villaggio, disse al suo intendente:
– Bisogna cercare con tutti i mezzi di impadronirci di questa perla!
– Signore, disse l’intendente, la famiglia Nie è povera, sarà facile comperarla con una bella sommetta.
Ma poiché Nie Lang era certamente troppo intelligente per lasciarsi ingannare, Zhou e il suo intendente concepirono un piano oscuro: l’intendente sarebbe andato con quattro servi a saccheggiare la casa dei Nie, con il pretesto che Nie Lang aveva rubato la perla preziosa della famiglia Zhou tramandata dai suoi antenati. Se Nie Lang non avesse dato la perla, lo si sarebbe incatenato e condotto in prefettura.

Quando Changsheng, guardiano dei cavalli di casa Zhou, venne a conoscenza del complotto, uscì di nascosto e andò ad informare Nie Lang affinché fuggisse immediatamente con sua madre. Madre e figlio erano tutti indaffarati nei loro preparativi per la partenza quando l’intendente di Zhou li fermò subdolamente davanti alla porta.
– Ridatemi immediatamente, gridò, la perla magica del mio padrone o siete morti tutti e due!
A quelle parole, Nie Lang si arrabbiò e disse puntando l’indice sull’intendente:
– Tu non sai che malmenare i poveri appoggiandoti a Zhou il Riccone. Con quale prova mi accusi di furto?
Senza prendersi pena di rispondergli, l’intendente ordinò ai servi di frugare in casa ma non si trovò nulla. L’intendente sgranò gli occhi e disse di perquisire Nie Lang che, immediatamente, inghiottì la perla.
– È finita, finita! Nie Lang ha inghiottito la perla, la perla è nella sua pancia! Gridarono i domestici.
– Picchiatelo! urlò l’intendente.
Sotto i calci e i pugni, Nie Lang svenne. Fortunamente, alcuni vicini riuscirono a scacciare l’intendente e i servi; quindi portarono Nie Lang dentro casa e curarono le sue ferite.

Mamma Nie, seduta vicino al letto, vigilava su suo figlio, con le lacrime agli occhi.
A mezzanotte passata, Nie Lang si svegliò improvvisamente e disse ad alta voce:
– Che sete! Voglio bere dell’acqua!
Vedendo che suo figlio aveva ripreso conoscenza, Mamma Nie, felicissima, si affrettò a dargli una ciotola d’acqua. Nie Lang la vuotò in un attimo e ne chiese ancora un’altra. Molto impaziente, si mise a pancia in giù sull’orlo del grande orcio e ne bevve tutta l’acqua. Sua madre tremava per la paura.
– Figlio mio, è terrificante vederti bere così tanta acqua!
– Mamma, il mio cuore soffre come se fosse arso da un fuoco violento! Voglio bere ancora, mamma!
– Non c’è più acqua nel nostro orcio!
– Voglio andare a bere nella rapida!
Un lampo squarciò il cielo e illuminò tutta la casa, seguito dal fragore del tuono. Nie Lang saltò per terra e corse fuori. Sua madre si precipitò per rincorrerlo, ma più lei correva, più aumentava la sua paura. Poco tempo dopo, apparve davanti a loro un fiume, simile a un lungo nastro grigio. Come posseduto, Nie Lang si gettò in riva al fiume e bevve gloglottando.

I lampi e i tuoni si succedevano. In un batter d’occhio, Nie Lang aveva prosciugato metà dell’acqua del fiume. Tirando per i piedi con tutta la sua forza, la madre gridò:
– Che cosa ti sta succendendo, figlio mio?
Nie Lang si voltò, si era trasformato: si vedevano due corna sulla testa, dei peli blu attorno alla bocca e delle scaglie rosse sul collo.
– Lasciate la presa, mamma, voglio essere un drago per vendicarmi di quest’odio così immenso e profondo quanto il mare!
Sotto i tuoni e i lampi, l’acqua salì rapidamente nel fiume con delle onde tumultuose, e sconvolse il silenzio dell’immensa terra.
Zhou il Riccone in persona arrivò giusto in quel momento, conducendo i suoi servitori che brandivano delle torce, con l’intenzione di aprire il ventre di Nie Lang e prendersi la perla.
Udendo questo vocìo, Nie Lang indovinò che c’erano della persone e disse:
– Lasciatemi, mamma, voglio vendicarmi!
Scrollandosi con tutte le sue forze, si rotolò nel fiume e fece scaturire delle onde alte sino al cielo.
– Vecchia, dov’è andato tuo figlio?, gridò Zhou afferrando Mamma Nie per le spalle.
– Che delinquente sei, Zhou! Insegui mio figlio sino al fiume. Non ti è sufficiente? Nie Lang,- urlò,- il tuo nemico è arrivato!
Con un calcio, Zhou il Riccone gettò Mamma Nie per terra, e corse in riva al fiume per cercare Nie Lang. Seguita da un lampo rosso e nel fracasso del tuono, un’onda, scatenata come un cavallo al galoppo, trascinò tra i suoi flutti Zhou il Riccone, il suo intendente e tutti i suoi servi, inghiottendoli sino all’ultimo.
Il vento si calmò e la pioggia smise di cadere. Il cielo si rasserenò poco a poco. Nie Lang levò la testa e chiamò dal fiume:
– Mamma, sto per partire!
– Figlio mio! Quando ritornerai? domandò Mamma Nie, afflitta.
– Poichè il mondo umano e il mare si separano, io non tornerò fino a quando le rocce non sbocceranno come fiori e ai cavalli non spunteranno delle corna.

Avendo la triste convinzione che suo figlio non sarebbe mai più tornato, Mamma Nie, in piedi su una grande roccia, gridava incessantemente:
«Figlio mio! Figlio mio!…»
Ai richiami della sua amata madre, Nie Lang volgeva più in alto la testa per vederla.
Ventiquattro volte lei lo chiamò e ventiquattro volte egli alzò la testa. Ad ogni saluto del figlio, comparve una spiaggia. Ne comparvero ventiquattro che più tardi furono chiamate le «Spiagge che guardano la madre», in cinese Spiagge Wangniang.

Il coniglio ruba il pasto all’elefante

Oggi, dalla Somalia, arriva la storia di un piccolo ladruncolo…

elefanteUn giorno Kalulu il coniglio stava guardando i piccoli di Soko la scimmia che giocavano tra gli alberi: ogni scimmietta tratteneva il fratello tenendolo per il collo, come un prigioniero. Kalulu pensò che poter far questo poteva servire a tante cose: lui non aveva una coda lunga,ma avrebbe potuto intrecciare le liane della foresta in un nodo. Nei giorni seguenti numerosi animali rimasero impigliati così nella foresta, riuscendo a scappare con gran difficoltà. Pensavano che fosse un caso, ma in realtà era Kalulu che sperimentava la sua trappola fatta con le liane. Qualche giorno dopo Polo l’elefante decise di fondare un nuovo villaggio, e, essendo il re degli animali, convocò ogni essere vivente della foresta perché lo aiutasse a costruire il villaggio. Vennero tutti, eccetto Kalulu. Kalulu aveva però sentito l’odore delle buonissime bacche che le mogli di Kalulu stavano preparando per la sua cena, e quando le bacche si furono raffreddate, Kalulu uscì dal suo nascondiglio e se le mangiò tutte. Polo era furioso quando tornò a casa scoprendo che tutte le sue bacche erano state rubate. Chi aveva osato rubargli il pranzo? Il giorno dopo Polo chiese al leone di appostarsi vicino, e di saltare addosso al ladro quando fosse arrivato. Ma Kalulu era nascosto nei cespugli e sentì tutto, così passò la notte a preparare un enorme nodo, che mise vicino alle pentole. Il mattino seguente, mentre gli animali stavano lavorando al nuovo villaggio, Kalulu uscì all’aperto e cominciò a mangiare le bacche di Polo, con un occhio dove era appostato il leone. Una volta finito il pranzo Kalulu fuggì, e Ntambo il leone cominciò ad inseguirlo. Kalulu passò attraverso il nodo che aveva costruito, e quando Ntambo lo seguì fu intrappolato e issato a mezz’aria, dove si agitò e sbraitò fino a sera, quando gli altri animali ritornarono al villaggio e lo videro appeso. Ntambo si vergognava troppo a dire che era stato intrappolato da un coniglio, così disse semplicemente che qualche animale sconosciuto l’aveva intrappolato. Il giorno dopo fu il turno di Mbo il bufalo di sorvegliare le bacche del suo re, ma Kalulu aveva messo un grande nodo tra due palme. Quando Kalulu finì di mangiare e iniziò a scappare, il bufalo lo inseguì, ma il coniglio lo attirò verso le due palme, e quando il bufalo lo seguì rimase intrappolato nel nodo ed appeso a mezz’aria, dove sbraitò e si agitò fino a sera, quando gli altri tornarono e lo trovarono appeso. Mbo il bufalo si vergognava a dire che era stato sconfitto da una lepre, pensando a cosa avrebbero pensato gli altri animali. Poi fu il turno del leopardo, della lince, del rinoceronte e dello sciacallo: Kalulu continuò a rubare le bacche di Polo. Alla fine Nkuvu la tartaruga, che era più saggia degli altri, andò privatamente da re Polo e disse: “Fammi cospargere di sale dalle tue mogli e mettere in mezzo alle bacche, così prenderò il ladro.” Il giorno dopo Nkuvu fu in gran segreto cosparso di sale e nascosto in mezzo alle bacche. Il coniglio fannullone voleva di nuovo mangiare a sbafo, e dopo aver messo il suo nodo, saltò in mezzo alle pentole mentre tutti gli animali stavano lavorando e incominciò a mangiare. Pensava che le bacche erano ancora più buone che altre volte, avevano un delizioso sapore salato. Ma prima che potesse finire, Nkuvu l’aveva afferrato per un piede. Il coniglio gridò, supplicò, trattò ed offrì doni, ma senza risultato. Nkuvu non diceva niente, semplicemente tratteneva Kaulu per un piede, e quando gli animali tornarono dal nuovo villaggio Kalulu era ancora prigioniero. Quando gli altri animali videro chi era in realtà il ladro, decisero di ripagarlo nello stesso modo in cui erano stati trattati. Per sei giorni rimase senza mangiare, e per tutto il giorno dovette rimanere appeso ad un albero con un nodo. Quando la punizione finì il coniglio era così magro che gli animali si impietosirono e lo lasciarono andare, avvisandolo che era meglio lavorare per mangiare piuttosto che rubare, e che se un ladro può scappare una volta, di sicuro prima o poi sarà catturato.

Il piccolo albero di Natale

E oggi non poteva mancare una fiaba che vi auguri di passare un sereno Natale.

albero di nataleC’era una volta un piccolo albero di Natale che, quando parlava con mamma albero di Natale e papà albero di Natale, non vedeva l’ora di poter mettersi addosso le palline colorate, i festoni argentati e le lampadine. Sognava ogni notte il suo momento, entrare nel salotto buono, gustarsi i sorrisi gli auguri in famiglia, lasciarsi sfuggire una lacrima di resina dalla contentezza.

E venne finalmente il giorno del piccolo albero di Natale. Venne scelto quasi per caso tra tanti amici alberi di Natale anche loro. Pensava: “Adesso è venuto il mio momento, adesso sono diventato grande”. Il viaggio fu lungo, incappucciato di stoffa bagnata per non perdere il verde luminoso dei rami ancora giovani. Tornata la luce, il piccolo albero di Natale si trovò nella casa di una famiglia povera. Niente palline, niente festoni, solo il suo verde scintillante faceva la felicità dei bambini che lo stavano a guardare con gli occhi all’insù, affascinati. Era il loro primo albero di Natale. Subito fu deluso, sperava di poter dominare una sala ricca di regali e di addobbi eleganti.

Ma passarono i giorni e si abituò a quella casa povera ma ricca di amore. Nessuno aveva l’ardire di toccarlo. Venne la sera di natale e furono pochi i regali ai suoi piedi ma tanti i sorrisi di gioia dei bambini che per giorni erano rimasti a guardarli sotto il suo sguardo severo per cercare di indovinare che cosa ci fosse dentro. Venne il pranzo di Natale, niente di speciale. Venne Capodanno, con un brindisi discreto, ma auguri sinceri. E venne anche l’Epifania e il momento di andare via. Questa volta non lo incappucciarono. Lo tolsero dal vaso, gli bagnarono le radici e tutta la famiglia lo accompagnò verso il bosco. Era felice di ritornare con mamma albero di Natale e papà albero di Natale. Passando per la strada vide tanti suoi amici, ancora con le palline colorate e i fili d’oro e d’argento, che lo salutavano. Ma c’era qualcosa di strano, erano tutti nei cassonetti della spazzatura, ricchi e sventurati, piangevano anche loro resina, ma non per la contentezza. Chissà dove sarebbero finiti!

Ora il piccolo albero di Natale è diventato un abete grande e possente, ha visto tanti figli andare in vacanza per le feste. Qualcuno è ritornato, sano o con un ramo spezzato. Lui guarda da lontano la città dove i bambini del suo Natale lo hanno amato e rispettato. Perché è un albero di Natale, albero di Natale tutto l’anno, perché Natale non vuol dire essere buoni e bravi solo il 25 dicembre, perché Natale può essere ogni giorno. Basta volerlo come quel piccolo albero di Natale che ci tiene compagnia sulla montagna, anche se lontano, anche se non lo vediamo.

Il tesoro invisibile

Oggi tocca all’Europa ed ecco a voi una bellissima fiaba albanese

ContadinoC’era una volta un vecchio contadino che lavorava la terra con grande amore e impegno. Amava molto la sua famiglia e soprattutto i suoi figli, ai quali aveva insegnato i valori più importanti ed essenziali della vita. Nonostante ciò, loro non lo aiutavano e tutto il giorno non facevano altro che pensare a divertirsi. Il vecchio lavorò per anni ed anni, fino a quando un giorno si ammalò. Non poteva più vivere a lungo, l’età e la malattia Io avevano indebolito molto. Poco prima di morire, chiamò accanto a sé tutti i suoi figli e disse loro: – Ragazzi miei, nella campagna, tempo fa, avevo nascosto un grande tesoro, ma ora non ricordo più dove. Questa sua ultima frase spinse i ragazzi a scavare in tutta la campagna per ore e ore, giorni e giorni, settimane ma invano. Il tesoro era introvabile. Uno di loro, dopo tanta fatica, si accorse che, senza volere, avevano vangato tutta la terra e così si rivolse ai fratelli dicendo:
– Non rattristiamoci più, guardate: la terra ora è pronta per essere seminata, perché non seminiamo? E così fecero. Quando i frutti furono maturi sollecitò di nuovo i fratelli con queste parole:
– Abbiamo vangato e seminato. Ora, ditemi, perché non raccogliere?!
E cosi, in poco tempo, con l’aiuto di tutti, raccolsero ogni frutto della terra. Fu soltanto allora che dentro al loro cuore si sentirono vicini al padre e capirono di aver trovato il tesoro di cui lui aveva parlato: la terra!

Il pappagallo che fa cra-cra

Ecco a voi una fiaba direttamente dal Brasile.
sfondo-desktop-pappagallo-514Un tempo, il pappagallo non era come oggi, e gli Indios Guaranì lo chiamavano Curimim, che vuol dire bambino.
Ogni giorno, Curimim se ne andava a caccia nella foresta insieme a suo padre, armato di arco e di frecce che si fabbricava da solo, utilizzando il legno degli alberi della grande foresta.
Qualche volta, poi, andavano a pescare nei fiumi che scorrono nella foresta, e Curimim, che era piccolo, prendeva pesci piccoli, mentre suo padre, che era grosso, prendeva pesci grossi come i dorados o i pacus.
Quando tornavano alla loro casa di legno e paglia, arrostivano il pesce sulla brace e tutta la tribù mangiava riunita. Se c’era molto, mangiavano molto, e se c’era poco, mangiavano poco: ma tutto era sempre diviso in parti uguali. Curimim, però era terribilmente goloso, e cercava sempre di mangiare più degli altri. Fu per questo, dicono, che diventò un pappagallo.
Un giorno, come sempre, Curimim andò a pescare con suo padre, mentre sua madre coglieva frutta nella foresta. A lui la frutta piaceva moltissimo, e qualche volta aiutava la mamma a riempire la cesta, perché sapeva arrampicarsi sugli alberi come nessun altro.
Quel giorno sua madre era proprio contenta perché aveva trovato un bel po’ di frutta, e appena tornò a casa la mise ad arrostire sulla brace.
Curimim, che camminava davanti a suo padre, tornò indietro di corsa perché aveva sentito il buon profumo della frutta arrostita, e cominciò a mangiarla senza nemmeno chiedere il permesso.
Ma, a furia di ingozzarsi, la polpa, bollente gli andò di traverso e Curimim si mise a tossire sempre più forte, finché la sua tosse diventò un rauco “Cra-cra”. La frutta gli era rimasta incastrata in gola, e Curimirn cominciò a storcere la bocca, che si trasformò in becco, e ad allungare il collo, che gli si ingrossò come il gozzo di un uccello.
E, finalmente, quando il boccone andò giù, a Curimim venne un tremendo prurito:
tutto il suo corpo si stava coprendo di penne verdi e di altri vivaci colori! Poi si sentì leggero leggero, alzò le braccia, che erano diventate ali, e scoprì che poteva volare. Curimim era diventato un pappagallo.
Allora, aprì le ali colorate e andò a posarsi in cima ad un albero, facendo cra-cra con la sua nuova voce rauca.
Qualcuno, però, dice di averlò visto tornare giù e ridiventare un piccolo Indio. Ma questa è un’altra storia…

Urashima Taro e la tartaruga

Quella che vi propongo oggi, è la storia di un giovane pescatore giapponese che salvò la vita di una piccola tartaruga…

biblidcon_067i02C’era una volta una rispettabile coppia di anziani che vivevano sulla costa, e per vivere facevano i pescatori. Avevano solo un figlio, un maschio, che era per loro gioia e orgoglio; per amor suo erano disposti ai più duri sacrifici, senza sentirsi mai stanchi o scontenti della loro vita. Questo figlio si chiamava Urashima Taro, che in giapponese significa «Figlio dell’Isola», ed era ormai un bel giovanotto venuto su bene, e un buon pescatore, che non si fermava mai, né dal vento, né dalle intemperie. Neanche il più coraggioso dei marinai in tutto il villaggio osava sfidare l’avventura spingendosi tanto al largo quanto Urashima Taro, e infatti, molte volte la gente del villaggio aveva l’abitudine di fare cenni di disapprovazione, dicendo ai suoi genitori: “Se vostro figlio continuerà ad essere così imprudente quando va per mare, e se continuerà a sfidare la fortuna in questo modo, prima o poi le onde finiranno per inghiottirlo.” Ma Urashima Taro non badava a quei commenti, e siccome era molto esperto e in gamba nel guidare la sua barca, i suoi genitori raramente si preoccupavano per lui.

Una luminosa mattina, nel tirare su le reti colme di pesci, vide in mezzo a loro una piccola tartaruga. Fu sorpreso e deliziato dalla sua bellezza, così la gettò su un vascello di legno per portarsela a casa, quando improvvisamente la tartarughina sentì la sua voce, e, tutta tremante, lo pregò di lasciarla andare. “In fondo,” disse, “cosa posso fare di buono io per te? Sono ancora così piccola e giovane, che vorrei vivere ancora un pò. Ti prego, abbi pietà di me e lasciami andare, vedrai che saprò dimostrarti la mia gratitudine.” Urashimataro era buono e gentile, e inoltre, non avrebbe mai potuto dire di no, così, riprese in mano la tartaruga e la rimise in acqua.

Passarono alcuni anni, e come ogni mattina, Urashima Taro salpava con la sua barca diretto verso il mare profondo. Ma un giorno, mentre stava cercando di raggiungere una piccola baia tra gli scogli, si alzò una tromba d’aria che mandò in frantumi la barca, e fu risucchiata dalle onde. Urashima Taro stava per fare la stessa fine, ma per sua fortuna era un ottimo nuotatore, e riuscì fortunosamente a raggiungere la riva. Allora vide un’enorme tartaruga venirgli incontro, e da sopra la furia della tempesta, sentì qualcuno dire: “Io sono la tartaruga che tu salvasti, e ora vengo per ripagare il mio debito e mostrarti la mia gratitudine. Vedi la terraferma laggiù? E’ troppo distante per te, e senza il mio aiuto non ci arriveresti mai, perciò, salimi in groppa, e io ti ci porterò.” Urashimataro non se lo fece ripetere due volte, ringraziò e accettò senza esitare. Ma appena ebbe raggiunto la spiaggia, la tartaruga gli propose di non tornare più indietro, ma di seguirlo nelle profondità del mare, per vedere le meraviglie che si nascondevano laggiù. Il giovane accettò volentieri, e in un attimo i due si trovarono nelle profondità del mare, a metri di distanza dalla superficie. Oh, quanto velocemente essi dardeggiavano tra le quiete e caldi acquee! Urashimataro si tenne stretto, chiedendosi dove stavano andando e quanto fosse lungo il cammino, e per tre giorni viaggiarono incessantemente negli abissi del mare, finché finalmente la tartaruga si arrestò davanti a uno splendido palazzo, che scintillava d’oro e d’argento, cristallo e altre pietre preziose; si fermarono lì, e lì c’erano grosse quantità di corallo rosa pallido e perle splendenti. Tuttavia Urashima Taro era impressionato dalla bellezza del luogo, ed era rimasto senza parole davanti all’ ingresso del palazzo, che era illuminato dalle scale scintillanti. “Dove mi hai portato?” chiese alla sua guida a voce bassa. “Al palazzo di Ringu, la dimora del dio del mare, dal quale tutte le nostre vite dipendono” disse la tartaruga. “Io sono la prima damigella di sua figlia, l’adorabile principessa Otohime, che vedrai tra poco.” Urashima Taro era molto confuso da questa avventura che gli era capitata, che aspettò in uno stato di completo sbalordimento, di sapere cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Ma la tartaruga, che aveva parlato così tanto di lui alla principessa, da farle desiderare ardentemente di conoscerlo, saputo che egli si trovava lì, andò subito ad accoglierlo. E subito la principessa capì che il suo cuore era tutto per lui, così, lo pregò di restare con lei, ed in cambio promise che non sarebbe mai invecchiato, e la sua bellezza non sarebbe mai svanita. “Questo non ti basta?” chiese ella, sorridente, con lo sguardo radioso come il sole; Urashima Taro rispose di sì, e rimase lì. Per quanto? Questo lo avrebbe saputo solo più tardi.

Da quel momento trascorse lì la sua vita, e ad ogni ora  si sentiva più felice che mai, finché un giorno fu assalito da una terribile nostalgia di casa. Cercò di combattere questo sentimento, pensando a quanto avrebbe addolorato la principessa, ma la nostalgia si fece sempre più forte, da non poterla più nascondere, e allora la principessa, vedendolo così triste, gli chiese cosa non andasse. Allora egli si confidò, dicendo che desiderava rivedere ancora una volta i suoi genitori. Fu una risposta che la agghiacciò di terrore, e lo implorò di non lasciarla, e che, se l’avesse fatto, ne era sicura, qualcosa di terribile sarebbe accaduto. “Tu non tornerai più, e noi non ci rivedremo mai più” gemette tristemente; ma Urashima Taro rimase tranquillo e ripeté: “Ti lascerò solo per questa volta, e poi ritornerò per sempre.” La principessa scosse la testa tristemente, ma rispose: “C’è solo un modo per riportarti qui al sicuro, ma temo che non accetterai mai le condizioni.” “Farò tutto ciò che vuoi per tornare da te” esclamò il giovane, guardandola teneramente, ma la principessa rimase in silenzio: lei sapeva troppo bene che se l’avesse lasciato andare, non l’avrebbe mai più rivisto. Allora prese da uno scaffale una piccola scatola d’oro e la diede a Urashimataro, pregandolo di custodirla gelosamente, e sopratutto, di non aprirla mai. “Se farai come ti dico” disse, dicendogli addio, “la tua amica fedele, la tartaruga, ti riaccompagnerà in superficie, e poi ti ricondurrà da me.” Urashimataro ringraziò dal profondo del cuore, e giurò solennemente che avrebbe rispettato i patti. Custodì gelosamente la scatolina nei suoi vestiti, salì in groppa alla tartaruga, e svanì nell’oceano, salutando la principessa con la mano. Navigarono tre giorni e tre notti, e al mattino del quarto giorno Urashima Taro arrivò alla spiaggia vicino a casa sua. La tartaruga lo salutò e se ne andò.

Urashima Taro si affrettò con passi gioiosi verso il villaggio. Vide i comignoli fumare e grandi piante verdi alte e rigogliose. Sentì le urla dei bambini, e passando davanti a una finestra udì il suono del koto = (strumento giapponese a corde), e nel complesso, tutto sembrava dargli il bentornato. Improvvisamente sentì un tuffo al cuore mentre vagava per la via: tutto sembrava cambiato, e non riconosceva nessuna delle case e delle persone a lui familiari. Di lì a poco vide la sua vecchia casa; sì, era ancora in piedi, ma aveva un aspetto strano. Bussò ansiosamente alla porta, e chiese alla donna che aprì notizie dei suoi genitori, ma ella non ne sapeva niente e non poté dargli alcuna notizia. Preoccupatissimo, si precipitò al giardino per sapere ciò che necessitava di sapere, cioè, se mai i suoi genitori si trovassero sepolti lì, e purtroppo, aveva ragione. Presto fu davanti alle tombe di loro, e la data della loro morte corrispondeva al giorno in cui essi avevano perso il loro figlio: il giorno in cui egli rinunciò a loro per restare con la figlia del dio del mare. Scoprì in questo modo che ben tre lunghi anni erano trascorsi da quando aveva lasciato casa sua. Tremante alla vista della scoperta appena fatta, ritornò verso il villaggio, sperando di incontrare qualcuno che lo riconoscesse e che potesse dargli qualche informazione sugli eventi passati. Quando un uomo parlò, realizzò che non stava purtroppo sognando, e all’improvviso si sentì svenire. Disperato, si ricordò della famosa scatolina che gli aveva donato la principessa; forse, dopo tutto, quei fatti non erano veri, e forse era vittima di qualche maledizione, e forse nelle sue mani poteva esserci l’antidoto. Quasi incoscientemente aprì la scatola, e un vapore color porpora fuoriuscì; tenne la scatola tra le mani, e guardando dentro, vide che la fresca e giovane mano si era improvvisamente tramutata in quella di un vecchio. Corse verso il ruscello, che sgorgava limpido dalla montagna, e specchiandosi nell’acqua vide la sua immagine riflessa, ed era l’immagine di una mummia che guardava verso di lui. Spaventato a morte, fece ritorno al villaggio, e nessun uomo né donna riconobbe in lui il giovane e forte pescatore che aveva fatto ritorno solo un’ora prima.

Si trascinò stancamente verso la riva, e lì sedette tristemente su una roccia, chiamando a gran voce la tartaruga, la quale però non tornò mai più. In compenso, la morte venne presto a liberarlo.

Egli non lo sapeva, ma prima che ciò accadesse, alcune persone che lo avevano visto lì seduto da solo sullo scoglio, avevano saputo della sua storia, e quando i loro figli erano inquieti, allora essi raccontavano loro del buon figliolo che, per amore dei suoi genitori, aveva rinunciato allo splendore e alle meraviglie del palazzo del mare, e alla più splendida donna mai vista sulla terra.

Il mago di Oz